Il recesso per sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da inidoneità fisica integra gli estremi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento; esso rientra dunque a pieno titolo nella moratoria stabilita dalla normativa emergenziale correlata alla pandemia Covid-19 e dunque non può legittimamente essere effettuato nel periodo di vigenza della stessa
Questo quanto affermato dal Tribunale di Ravenna con sentenza del 7 gennaio 2021 – Giud. Bernardi.
La sentenza 7 gennaio 2021 del Tribunale di Ravenna – che per la prima volta interviene sull’applicabilità della moratoria dei licenziamenti alle ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione per inidoneità fisica – non fa una grinza.
Per il Tribunale – cui pure non sfugge la frammentarietà della categoria giuridica cui si affida ma che trova conforto negli afflati di Cass. 21 maggio 2019, n. 13649, Cass. 22 gennaio 2019, n. 6678 e Cass. 6 dicembre 2017, n. 29250 – «il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta integra, per giurisprudenza e dottrina consolidate, un motivo oggettivo (categoria frammentaria e che comprende tutto ciò che non è disciplinare) di licenziamento…».
Due più due fa quattro, e dunque muovendo da tale assunto (curiosamente avvalorato dalla stessa lettera di licenziamento, che risulta infatti effettuato per giustificato motivo oggettivo) è risultato relativamente facile ascrivere anche questo tipo di licenziamento tra quelli impediti dalla moratoria della normativa emergenziale Covid-19 e pervenire così al suo annullamento.
Si è intuitivamente trattato di una decisione “in diritto”, cui il Tribunale è pervenuto sulla base della semplice prospettazione difensiva delle parti e senza che si sia reso necessario alcun atto istruttorio.
Eppure, almeno questa è la nostra percezione, un qualche rilievo critico – che forse non vale alla tessitura di una contrapposta esegesi ma che perlomeno incrina la capacità di convinzione di quella prescelta e rende comunque più contendibile la questione – è pur possibile effettuare.
A cominciare, per esempio, dall’avvenuto rigetto della prospettazione difensiva aziendale, tutt’altro che peregrina ed anzi infarcita di qualche buona considerazione di diritto. È la stessa sentenza che ne fa espressa menzione, così riassumendola: «…siamo di fronte ad un licenziamento che nulla c’entra con il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, quello dell’art. 46 D.L. 18/2020 come convertito e modificato. Ne consegue che il licenziamento oggi avversato non ha natura di licenziamento economico in senso stretto e, soprattutto, occasionato dai fatti di questo periodo, che è quello ostacolato dal divieto invocato dal ricorrente, introdotto in via eccezionale e temporanea al fine di impedire il recesso unilaterale dal rapporto di lavoro per motivi legati ad assenza di lavoro, soppressione del posto di lavoro o ridimensionamento della società come conseguenza alle misure restrittive adottate dal Governo per fronteggiare l’epidemia in corso. Ad avviso di chi scrive, infatti, non si può prescindere da una valutazione della applicabilità del divieto tenuto conto del caso specifico, pena – al contrario – una eccessiva, illogica ed indiscriminata compromissione dell’art. 41 Cost. che, invero, dovrebbe essere necessariamente bilanciata dai principi di proporzionalità ed adeguatezza; bilanciamento che non si configura qualora si impedisce al datore di lavoro di licenziare per motivi non strettamente legati alle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” connesse alle misure restrittive assunte contro la pandemia (duplice requisito), come lo è il caso di un dipendente che è divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli, mansioni che sono le uniche presenti in azienda: M. non avrebbe comunque potuto lavorare, lockdown (situazione che non ha impedito a tutti i suoi colleghi di lavorare) o meno…».
Il rilievo è tutt’altro che impertinente, mentre invece risulta piuttosto blanda la replica, affidata da un lato al richiamo delle ragioni di tutela economica e sociale espresse dall’art. 1 del d.l. n. 18/2020 (che risultano però rapportate agli “effetti negativi” propri dall’emergenza epidemiologica Covid e che dunque non spostano di un millimetro il baricentro della problematica) e dall’altro all’invocata (ma improbabile) prospettiva che solo all’esito della parentesi pandemica risulterebbe congrua una valutazione sulla possibilità di ripescaggio del lavoratore e sulla sua effettiva licenziabilità per motivi oggettivi (affermazione, quest’ultima, che pare attingere dall’infinita riserva del politicamente corretto e che lascia in realtà il tempo che trova).