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Uso del cellulare al lavoro e tumore: sussiste il nesso causale

Uso del cellulare al lavoro e tumore, in questa sentenza analizziamo una recente giurisprudenza che ha riconosciuto il nesso causale.
Con decisione del 3 dicembre 2019 la Corte d’appello di Torino, confermando la sentenza del Tribunale di Ivrea (21 aprile 2017, est. Fadda), ha ritenuto sussistente il nesso causale tra un tumore encefalico e il prolungato utilizzo del telefono cellulare da parte di un dipendente della Telecom svolgente attività di “referente/coordinatore di altri dipendenti”.
La fattispecie non è nuova ed è già stata trattata nel nostro blog.
Nel 2012 si era già espressa in questo senso la Corte di Cassazione (sentenza 12 ottobre 2012, n. 17438), a conferma di una decisione della Corte d’appello di Brescia del 2009, entrambe richiamate in motivazione; nel 2017, oltre al citato Tribunale di Ivrea, il Tribunale di Firenze (sentenza 27 aprile 2017, n. 391).
I casi trattati presentano una forte analogia trattandosi di soggetti che avevano fatto uso lavorativo protratto di telefoni cellulari al lavoro, per un lungo lasso temporale (dai 10 ai 15 anni) e per più ore al giorno (5-6 ore in medi) ed avevano contratto patologie tumorali intracraniche.
In base all’istruttoria testimoniale condotta il Tribunale di Ivrea aveva accertato che il ricorrente, quale referente/coordinatore di quindici altri dipendenti Telecom, utilizzava “nell’ipotesi più prudente il cellulare per almeno due ore e mezza al giorno (2 telefonate per 5 minuti per 15 colleghi) e nell’ipotesi maggiore, per oltre sette ore al giorno (3 telefonate per 10 minuti per 15 colleghi), cui si aggiungeva il tempo trascorso al telefono per riferire ai propri superiori e per coordinarsi con il direttore dei lavori degli enti e con le imprese esterne”. Tale utilizzo si sarebbe protratto dal 1995 fino al 2010.
All’epoca, peraltro, non esistevano strumenti per attenuare l’esposizione alle radiofrequenze e tale carenza risultava aggravata dal tipo di tecnologia utilizzata dai primi telefoni cellulari (ETACS).
A fine 2009 al ricorrente era stato diagnosticato un neurinoma acustico (un tumore raro che colpisce 0,7-1 persone su 100.000); il lavoratore aveva quindi chiesto all’Inail il riconoscimento della malattia professionale, per utilizzo prolungato del cellulare al lavoro e insorgenza del tumore, che l’Istituto ha negato.
Contro il provvedimento di diniego egli aveva proposto ricorso al Tribunale del lavoro che ha invece riconosciuto il nesso eziologico tra l’esposizione lavorativa a radiofrequenze e la patologia contratta, con condanna dell’Inail a corrispondere al dipendente una rendita vitalizia da malattia professionale (circa 500 euro al mese, commisurata alla percentuale di danno biologico permanente accertato, pari al 23%).
È bene precisare che, trattandosi di malattia ad eziologia multifattoriale e non tabellata (tale essendo solo quella per cui è la stessa legge a riconoscere il nesso causale con l’attività lavorativa) non è consentito al Giudice di ricorrere ad alcuna presunzione, incombendo sul lavoratore l’onere di provare che la patologia patita è conseguenza (“causa”) di quell’attività.
Per costante giurisprudenza tale prova deve essere fornita in termini di ragionevole certezza, dovendosi escludere la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale.
Pertanto, il nesso eziologico in questi casi può essere ravvisato solo in presenza di un elevato grado di probabilità (cfr. Cass. sez. lav. 10 aprile 2018, n. 8773).
Così come il giudice di primo grado, la Corte d’appello ha valorizzato:
1) l’associazione tra la rarità del tumore e l’abnormità dell’uso del telefono cellulare;
2) la congruità del periodo di latenza con i valori relativi ai tumori non epiteliali;
3) il fatto che la patologia sia insorta nella parte destra del capo del ricorrente, che utilizzava per lo più il cellulare con la destra, essendo destrimane (c.d. ipsilateralità dell’uso);
4) l’assenza di altra plausibile spiegazione della malattia.
Trattasi di argomenti in verità non determinanti ai fini della ricostruzione in termini di “elevato grado di probabilità” del nesso eziologico e soprattutto non esaustivi: associare due “rarità” quali il tipo di tumore e l’eccezionale esposizione alle radiofrequenze non autorizza ad individuare, tra le stesse, un rapporto di causa-effetto; non v’è alcun parametro per una oggettiva misurazione del periodo di latenza del tumore NA (neurinoma acustico) considerato che, come sottolineato dalla stessa relazione peritale dei CTU incaricati dalla Corte d’appello, v’è «ampia letteratura scientifica da cui risultano tassi di crescita del neurinoma acustico piuttosto variabili»; né può inferirsi dall’ipsilateralità e quindi dalla localizzazione del tumore la prova certa che il fenomeno sia causa della patologia. Quanto all’assenza di altra plausibile spiegazione di quest’ultima è ben noto che la genesi dei tumori (di tutti di tumori) resta tuttora riferibile ad una molteplicità di fattori tra i quali nella maggior parte dei casi è pressocchè impossibile individuare quello dominante. Consapevoli di quanto osservato, sia il giudice di primo grado che il giudice del gravame hanno affidato le rispettive conclusioni ad una consulenza tecnica d’ufficio. Così, come spesso capita, al CTU è stato di fatto delegato il compito di trovare «una legge scientifica generale di copertura o quantomeno una legge scientifica che abbia un preponderante consenso” tale da suffragare la riconduzione del tumore dei nervi cranici, indotti da esposizione alla radiofrequenze, tra le malattie di origine professionale» (Cass. n. 17438/2012).

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