In attesa di intervento legislativo che imponga l’obbligo, o quantomeno l’onere, di vaccinarsi per gli operatori sanitari, si comincia a fare strada anche tra i giudici l’idea che sia legittima l’imposizione delle ferie forzate per il personale sanitario che sostenga il proprio rifiuto al vaccino covid (sul divieto di licenziamento covid in generale v. qui).
La posizione del giudici sicuramente è alimentata dalle notizie che passano sui media di focolai derivanti da contagio di personale sanitario che aveva opposto il rifiuto al vaccino.
Nel caso preso in considerazione dal tribunale di Belluno, il datore di lavoro titolare delle case di riposo, aveva adottato la misura della collocazione in ferie per quattordici giorni.
Il giudice ha sostenuto che alla luce delle mansioni svolte, che comportano un alto rischio di contagio per sé per gli altri , è legittima la collocazione unilaterale in ferie del personale che aveva rifiutato il vaccino, quale misura presa dal datore di lavoro ai sensi dell’art 2087 cod. civ., per tutelare l’integrità fisica, sia dei lavoratori novax in questione, sia degli altri addetti, dei pazienti e dei ricoverati.
Questa misura, nel contempo, integra anche quell’“esigenza dell’impresa” in presenza della quale l’art. 2109 cod. civ. attribuisce al datore di lavoro la facoltà di stabilire il tempo di fruizione delle ferie stesse.
La stringata motivazione del tribunale di Belluno contiene statuizioni interessanti, laddove qualifica processualmente come vero e proprio “notorio”, il fatto dell’efficacia del vaccino nell’impedire l’evoluzione della patologia causata dal Covid, ritenendo conseguentemente “evidente” il rischio per i lavoratori di essere contagiati; di qui la violazione l’obbligo di cui all’art. 2087 da parte del datore di lavoro che non abbia disposto il loro allontanamento dal servizio.
Naturalmente, in assenza della legge, resta aperto il problema della sorte dei rapporti di lavoro una volta esaurito il periodo di ferie; ciò richiama la questione più generale delle modalità con cui il datore di lavoro può/deve allontanare il lavoratore dal posto dove svolge le sue abituali mansioni a rischio. Tali modalità sono sostanzialmente di tre tipi.
a) Una sorta di repechage e cioè di adibizione di quel lavoratore ad altre mansioni che non comportino contatti interpersonali stretti, potendosi applicare, per l’eventuale adibizione a mansioni inferiori quando esse sono le uniche disponibili, la fattispecie dell’art. 2103, comma 2, cod. civ., ovvero perfino quella del vero e proprio repechage che la giurisprudenza desume dall’art. 3, l. n. 604/66.
b) Nel caso in cui non siano disponibili tali mansioni, non essendo obbligato il datore di lavoro a modificare l’organizzazione o ad accettare una prestazione di lavoro lavorativa scarsamente proficua, vi è l’alternativa dell’accordo per la sospensione della retribuzione e della prestazione, proprio a fronte del rifiuto vaccino covid; probabilmente al lavoratore converrebbe di più essere collocato in cassa integrazione, ma questa soluzione deve fare i conti con il fatto che qui l’inutilizzabilità del lavoratore non deriva a stretto rigore da una sospensione o riduzione dell’attività, come recita da ultimo l’art. 8, commi 1 e 2, D.L. 22 Marzo 2021, n. 41, bensì dalla scelta del lavoratore di non vaccinarsi. La sospensione del rapporto fa sorgere comunque l’ulteriore problema per il datore di lavoro della sorte del sostituto al rientro del dipendente sospeso.
c) L’extrema ratio è il licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, venendo meno un requisito indispensabile per l’esecuzione in sicurezza della prestazione lavorativa. Il lavoratore che pone il rifiuto vaccino covid, infatti non può pretendere che gli venga conservato un rapporto di lavoro inutilizzabile in attesa che prima o poi venga raggiunta la c.d. “immunità di gregge”. Questa soluzione deve però fare i conti con il problema dell’ ennesima proroga del blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (art. 8, comma 9 e 10, D. L. n. 41/2021), a cui una giurisprudenza consolidata suole ricondurre tale sopravvenuta inidoneità; proroga, questa, che solleva seri dubbi di costituzionalità, soprattutto in relazione alle fattispecie come quella in esame, in cui il licenziamento non è motivato da una decisione organizzativa aziendale dovuta alla crisi economica e di mercato determinata dalla pandemia, bensì da fatti inerenti la persona del lavoratore.