Uno degli obblighi del datore di lavoro prima di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello di verificare se vi siano possibilità di adibire il dipendente in altre mansioni o lavori in azienda, si tratta di un dovere comunemente chiamato obbligo di repêchage.
Sull’argomento è intervenuta con una interessante sentenza la Corte di cassazione (sentenza 12132/2023) che ha stabilito che il datore di lavoro, nel valutare la ricollocabilità del dipendente prima di procedere al suo licenziamento, deve prendere in esame anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, si renderanno «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso».
In sostanza quindi si apre una strada giurisprudenziale secondo la quale, nella fase del recesso, la situazione aziendale cristallizzata al momento del licenziamento non costituisce più il perimetro certo entro cui valutare la ricollocabilità del lavoratore, giacchè deve considerare anche le posizioni libere in futuro. L’obbligo di repêchage deve, infatti, riguardare anche posizioni lavorative “prossimamente” disponibili. Tale principio viene affermato in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore, ritenuto illegittimo, appunto, per violazione dell’obbligo di repêchage, nell’ambito di una complessa vicenda processuale (c’era già stato un rinvio alla Corte d’appello).
Nel caso specifico, le posizioni lavorative «disponibili in un arco temporale del tutto prossimo» erano quelle di due colleghi, con mansioni fungibili rispetto a quelle svolte dal licenziato che, al momento del licenziamento, avevano già rassegnato le dimissioni e si trovavano in preavviso.
Sennonché emerge dalla sentenza che le dimissioni non erano state spontanee, bensì incentivate nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, dovendosi ipotizzare come posizioni in esubero. Queste ultime non potevano, peraltro, nemmeno dirsi “disponibili”, come dimostrato dall’assenza di nuove assunzioni successive, con la conseguenza che il lavoratore aveva perso i primi due gradi di giudizio. La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto le difese dell’azienda inammissibili, in quanto introduttive di circostanze di fatto nuove e diverse rispetto a quelle inizialmente allegate nel corso del lungo giudizio dalla società (inizialmente si era difesa affermando che, al momento del licenziamento, le posizioni lavorative erano ancora coperte).