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Demansionamento sul lavoro: cosa c’è da sapere

Nell’ambito del diritto del lavoro, fra le varie tematiche, particolare importanza riveste quella inerente il cosiddetto demansionamento del lavoratore (qui affrontiamo il settore privato: il demansionamento nel settore pubblico è un altro discorso).

Cosa significa demansionamento sul lavoro?

Quanto alla definizione di demansionamento, occorre dire che esso consiste nell’assegnazione del dipendente a mansioni che rientrano in un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello pattuito nel contratto individuale di lavoro o a quello corrispondente alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore.

Il demansionamento trova la sua disciplina nell’art. 2103 c.c., il quale sancisce il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni assegnate al dipendente rispetto a quelle fissate al momento dell’assunzione di quest’ultimo.
Di norma, il datore deve adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a quelle che corrispondono alla categoria superiore che abbia acquisito, senza che il dipendente subisca una diminuzione di quello che è il suo salario.
Ciò significa che, il datore di lavoro può esclusivamente assegnare al lavoratore mansioni equivalenti o superiori e non invece mansioni inferiori; pertanto si esclude, e per di più a pena di nullità di ogni patto contrario, la possibilità di demansionare il dipendente, anche con riguardo all’ipotesi in cui ciò sia stabilito per accordo fra le parti.

Quando il demansionamento è legittimo

Tuttavia, l’art. 2103 c.c. stabilisce che il demansionamento è legittimo in tre specifici casi, ossia:

  • se la modifica di assetti organizzativi aziendali incide sulla posizione del dipendente (art. 2103 c.c., comma 2);
  • qualora il demansionamento sia previsto da parte del contratto collettivo applicato al rapporto lavorativo (art. 2103 c.c., comma 4);
  • nell’ipotesi in cui il demansionamento sia previsto da un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle cosiddette sedi protette, che risponda all’interesse del dipendente, vale a dire alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita (art. 2103 c.c., comma 6).

Qualora il lavoratore subisca un demansionamento, può rivolgersi al Tribunale del Lavoro territorialmente competente, con l’aiuto di un avvocato del lavoro, domandando, oltre al risarcimento dei danni (patrimoniali e non patrimoniali), anche la reintegra nella posizione precedente oppure l’accertamento della sussistenza di una giusta causa di recesso dal contratto di lavoro.

Il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione

(Cass. Civ., n. 25743/2018)

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