Coronavirus e lavoro: alla fine di febbraio 2020 abbiamo dedicato un articolo sul lavoro ai tempi del coronavirus. Sembra passato un anno ma sono passati solo 60 giorni, e tante cose sono cambiate, anche con riferimento alle norme in tema di coronavirus e licenziamento.
In questo articolo affrontiamo l’impatto dell’emergenza coronavirus sulla risoluzione del rapporto di lavoro: dai licenziamenti per ragioni economiche vietati per sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto cura Italia (destinati ad essere prorogati anche nel decreto aprile che a breve sarà approvato) a quello disciplinare, dal licenziamento per superato periodo di comporto, a quello dei dirigenti
Come molti sanno il decreto n. 18/2020 (il cd. decreto “Cura Italia”), pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 70 in data 17 marzo 2020 ha introdotto , uu divieto di licenziamento per ragioni economiche per un periodo di sessanta giorni successivi alla sua entrata in vigore.
Detto divieto di licenziamento (che di fatto, introduce il divieto di licenziamento per coronavirus) che come anticipato sarà prorogato è in realtà una norma imperfetta, perchè non prevede la sanzione in caso in cui il datore di lavoro proceda comunque al licenziamento.
Le ipotesi sono diverse.
Anzitutto, la più semplice, è quella di immaginare l’applicazione delle regole standard per i casi di licenziamenti illegittimi: la tutela risarcitoria, diversa a seconda delle dimensioni di impresa. Si potrebbe sostenere che in caso di licenziamento in periodo di coronavirus al dipendente della piccola impresa, a seconda della data di assunzione (prima o dopo il 2015) spetterà un risarcimento tra le 2 e le 6 mensilità e nelle imprese più grandi un risarcimento fino a 24 o 36 mensilità (a seconda, ancora una volta, della data di assunzione).
A parere di chi scrive, però, si potrebbe anche sostenere la nullità del licenziamento, perché contrario ad una norma imperativa. In questo caso, il licenziamento durante il periodo di vigenza del divieto per emergenza coronavirus, sarebbe addirittura totalmente inefficace, con conseguente diritto del lavoratore ad essere reintegrato sul posto di lavoro e ottenere il pagamento di tutte le retribuzioni perse dalla data di licenziamento alla data di reintegra.
Si tratta di ipotesi, che solo nel corso del tempo saranno valutate dalle autorità giudiziarie che, peraltro, potrebbero addirittura mettere in discussione la tenuta costituzionale del divieto di licenziamento per coronavirus stabilito dal governo, giacché si potrebbe sostenere contrasti il libero esercizio dell’attività di impresa stabilito dall’art. 41 della nostra costituzione.
Stante il tenore letterale della norma (art. 46 del D.L. n. 18/2020), la quale fa esplicito riferimento all’art. 3 della legge n. 604/1966, pare che i dirigenti si debbano considerarsi esclusi dal divieto di licenziamento.
Quanto ai licenziamenti collettivi, l’art. 46 del decreto cd. “Cura Italia” ha disposto il “congelamento” per un periodo di sessanta giorni dal 17 marzo in caso di procedure avviate successivamente al 23 febbraio 2020, rispetto alle quali, dunque, non sembrano potersi porre problemi di tipo “operativo”.
Problemi che, al contrario, sussistono certamente con riferimento alle procedure non considerate dal decreto, vale a dire quelle avviate prima di tale data e non ancora conclusesi.
Come noto, la procedura delineata dall’art. 4 della Legge 223/1991 consta di due fasi: una prima cd. “sindacale”, che vede coinvolti il datore di lavoro e le associazioni sindacali e la cui durata non può eccedere i quarantacinque giorni, nonché – nel caso in cui non venga raggiunto un accordo nel corso della consultazione di cui alla prima fase – una seconda cd. “amministrativa”, che si svolge davanti all’ufficio (ministeriale, regionale o provinciale) competente e deve esaurirsi nel termine massimo di ulteriori trenta giorni.
Ebbene, seppur vero che la consultazione potrebbe validamente avvenire senza la fissazione di alcun incontro “fisico” tra le parti coinvolte, vietato per effetto del DPCM del 4 marzo 2020, ben potendo infatti la stessa essere espletata con modalità telematiche rispettose del divieto governativo, è altrettanto vero che siffatte modalità telematiche non sembrano poi in concreto poter trovare effettiva applicazione con riferimento all’assemblea dei lavoratori, che nella prassi sindacale consolidata precede di norma la sottoscrizione dell’accordo sindacale che suggella la fine della procedura.
Pertanto, benché il mancato svolgersi dell’assemblea dei lavoratori non possa qualificarsi quale violazione delle procedure, atteso che la stessa non rappresenta un adempimento necessario della procedura delineata dal citato art. 4, si tratterebbe comunque di un vulnus alle prerogative riconosciute dallo Statuto dei Lavoratori alle organizzazioni sindacali che potrebbe quantomeno tradursi in una (legittima) “paralisi” sindacale.
Nel contesto attuale, pertanto, si pone la seguente alternativa: o i datori di lavoro unilateralmente procedono alla revoca delle procedure di licenziamento collettivo avviate antecedentemente al 24 febbraio 2020 (laddove un accordo sindacale appaia la soluzione preferibile quale esito della procedura) o, in alternativa, concordano con le organizzazioni sindacali una sospensione sulla falsa riga di quella prevista dal decreto cd. “Cura Italia”, ad esse espressamente non applicabile.
Benché tale sospensione si traduca, di fatto, in una proroga dei termini della procedura di licenziamento collettivo non contemplata dalla legge (che infatti non conferisce alle parti tale potere di proroga) potendosi astrattamente configurare, quindi, un vizio sussumibile nella categoria della violazione delle procedure – con le ben note conseguenze sanzionatorie sopra richiamate -, appare lecito escludere che i Tribunali chiamati in futuro a pronunciarsi sulla questione, considerato il contesto di emergenza nonché le finalità di tutela dei lavoratori coinvolti, possano ritenerla non giustificata e quindi illegittima, tanto più trattandosi comunque di un trattamento di miglior favore nei loro confronti.
Quanto al licenziamento per superamento del periodo di comporto non si ritiene possa trovare applicazione il “divieto” di licenziamento disposto dall’art. 46 del decreto “Cura Italia”, né sembrano potersi porre problemi di tipo “operativo” per l’intimazione del recesso, atteso che non è richiesto il preventivo esperimento della procedura ex art. 7 della Legge n. 604/1966.
Parimenti, non sembra che il Covid-19 possa impattare significativamente sul numero dei recessi intimati per ragioni disciplinari giacchè rimangono possibili.
Un’ipotesi peculiare potrebbe tuttavia ricorrere nel caso in cui il lavoratore, occupato presso un’azienda la cui attività non sia stata interessata dal lockdown disposto con il DPCM dell’11 marzo 2020, non si presenti sul luogo di lavoro per timore di contrarre il virus.
Tale ipotesi, infatti, potrebbe a seconda dei casi (ovvero a fronte di un timore infondato perché esagerato o non supportato da elementi obiettivi) rappresentare un’ipotesi di assenza ingiustificata, sanzionabile con il licenziamento, per giusta causa ovvero giustificato motivo soggettivo, a seconda delle previsioni del contratto collettivo applicabile.
Tuttavia, affinché l’assenza possa essere considerata ingiustificata, occorre che il datore di lavoro abbia apprestato misure idonee a eliminare o quantomeno ridurre significativamente il rischio di contagio sul luogo di lavoro: diversamente, infatti, il lavoratore potrebbe opporre l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ., così precludendo il recesso datoriale.